giovedì 7 aprile 2011

Lo Zappaterra_part.3

Terzo e ultimo capitolo del racconto "Lo zappaterra", continua dal post precedente...

Cammino. Mi piace e mi cura camminare. Non penso alla direzione, io cammino senza meta, senza scopo. Sono distratto e guardo a terra. Penso al colore grigio del cemento e al rumore dei miei passi, così leggero che non potrei mai lasciare impronte. Mi assalgono pensieri vorticosi. Mi chiedo se io, con tutte le mie fosse e catene, non sia poi uguale all'uomo paffuto e burbero che ho appena lasciato. Non ho voglia di rispondermi. Sono stanco. Stanco da morire e mi trascino per strade anonime, senza alcuna attrattiva. Dal cielo plumbeo inizia a cadere una pioggia sottile. Mi trascino ancora un pò. Delle persone mi passano a fianco, gli sguardi sono fissi su orizzonti lontani, non si guardano attorno, non guardano me, neanche di striscio. La solitudine è una compagna affidabile, c'è sempre, mi affianca e si appoggia a me. Non provo a ripararmi dalla pioggia, lascio scorrere le gocce piccole e brillanti sul viso e sui vestiti. In poco tempo sono fradicio, è una sensazone che non mi dispiace.
Oggi sono morto e ora non ho idea di che tipo di vita stia vivendo. Ricordo la vanga dello Zappaterra quando mi ha spezzato la testa in metà, ricordo la terra in bocca e la sensazione claustrofobica del respiro che non trova aria. Inspiro profondamente, come di riflesso a quella sensazione. Volgo lo sguardo al cielo, è enorme, un abbraccio grigio e senza pietà. La miseria del mondo è così triste che non posso sopportare ancora la vista della sua immensità.
La mia testa ricade verso il suolo, rassicurante suolo.

Uno strano sole lontano spunta tra le nubi e la pioggia smette di cadere. La nebbia, salendo, avvolge ogni cosa.
Una salita tortuosa mi porta su una collina. Gli alberi hanno rami fitti e occhi incavati, scrutano. Il ciottolato rosso su cui cammino è alternato da pietre bianche che formano l'immagine di una stella. Una stella bianca a cinque punte. Mi siedo su una panchina in pietra e guardo la sera farsi sempre più buia. Il sole è tramontato ammantato dalla nebbia.
Di fronte a me sta una chiesa, dietro ci sono tre faggi, alti e vecchi. Sulla destra invece c'è un cimitero, verso cui mi avvicino. Luci tremolanti illuminano piccoli nomi, scritti nella pietra.
Ho voglia di sdraiarmi, ho voglia di riposare, ho voglia di dormire. Se ci fosse una fossa per me mi ci addormenterei dentro. "Ma c'è una fossa per te!", dice una voce; nel panico mi giro, ma con la nebbia fitta non riesco a vedere nulla. Rimango allora immobile, fissando in direzione della voce, solo nebbia e lumini flebili. "Vieni!", urla di nuovo la voce con tono aspro e autoritario. Ma per me è impossibile muovere anche solo un dito. Non ho mai sentito il mio cuore battere così forte, in maniera così irregolare. "Sono io, non ricordi? Non ricordi te stesso? La tua stessa voce?" Dei passi che si trascinano nella ghiaia verso di me mi fanno capire a chi appartine la voce.
Lo Zappaterra affiora dal mare di nebbia. é molto più brutto e vecchio dall'ultima volta che l'ho visto. Mi sorride in maniera strana, forzata e sarcastica. I pochi denti che gli rimangono in bocca sono nero-giallastri, grandi rughe solcano il suo viso, pallido ma sporco. "Vieni, vieni a vedere!", dice, tirandomi per un braccio. Cammina curvo, quasi zoppicando.
"Guarda!". In una fossa appena scavata c'è un cadavere, un cadavere di una persona irriconoscibile, su cui banchettano contorcendosi centinaia di vermi. Io so di chi si tratta! Io so tutto, lo so. "Non ho mai visto una persona decomporsi in così poco tempo! E anche il tanfo è fuori dal normale!", esclama lo Zappaterra ridacchiando.
"Che tragedia! Eh, che tragedia! Vedere te stesso morto e in decomposizione! Incredibile! Ma sai, tu ci sei portato, hai una strana inclinazione a scomparire. Quante volte sei morto nella mente delle persone? Dimenticato, completamente dimenticato. Tu puoi vivere nei pensieri delle persone e poi esser dimenticato in due giorni! Sì, ci sei proprio portato! E, anche io, mi sono dovuto impegnare per ricordarmi della tua carcassa. Se devo essere sincero, me ne sono ricordato grazie al puzzo! Ah ah! é tempo che però tu scompaia veramente. Non ha senso che tu viva ancora in questo stato. Richiuderò la buca". Lo Zappaterra sembra immensamente sollevato, come se io fossi l'unico suo peso.
Rimango a fissare quello spettacolo orribile e mi sento i minuscoli morsi dei vermi addosso. Sento di essere incredibilmente morto, sento che la pressione del mondo ora è troppo forte per contenere anche me. Sensazioni simili ne avevo provate in passato, ma non così forti. Ora, davvero, sento che le mie catene non servono più a nulla e che, nello stesso tempo, stringono come mai prima.
Piango. Piango perchè, come i bambini, vedo che non ho altri mezzi per esternare il mio disappunto, la mia angoscia, il mio dolore.

E se i ricordi, che ci danno identità e sicurezza, facessero del male fisico? Se ci sentissimo davvero in trappola, ingabbiati dal passato e risucchiati dalla vita, questi ricordi avrebbero veramente importanza? Non lotteremmo con tutte le nostre forze per liberarcene e fuggire a quella stretta mortale?

Urlando nel pianto, sento di odiare i momenti belli. Momenti belli a cui mi sono legato e che ora sono l'unico, maledetto, ostacolo tra il dolore e la pace. La nausea più forte della mia vita mi costringe a terra, mi accascio nel malessere fisico della mia mente. Lo Zappaterra ora ride a squarciagola, non per la felicità, ma per la soddisfazione. Non è più il mio funzionario, non è più il mio schiavo, è libero. I suoi occhi, rossi e vecchi, sono la concretizzazione della vendetta. Io ho la testa così pesante che non posso più rialzarla. Mi rimbombano nella mente tutte le parole che ho sentito in vita, tutti i momenti e i respiri che ho voluto conservare. Vedo occhi, occhi azzurri, verdi e marroni girare vorticosamente verso l'infinito, verso la dissoluzione, come lacrime nella pioggia.

Va bene, va bene, mi arrendo. Voglio arrendermi. Ho vissuto finora nell'arrendevolezza, creando come punti fermi i pilastri del passato, ma ora basta. Ora davvero basta. Non voglio più vedere nessuno. Non voglio sentir nominare nemmeno un nome, neanche una data, neanche i giorni di quasi felicità. Stufo marcio, sono stufo marcio di quest'obbligo verso il passato.

Mi alzo. Sento vertigini, ma sono in piedi. Guardo di nuovo quel mucchio di carne divorato dalla terra e dai vermi. Mi tuffo. Mi lancio nella fossa piangendo. Abbraccio me stesso. Abbraccio quel mucchio di carne schifosa e puzzolente che ho tanto amato.
"Andiamo via! Andiamo via! Pace! Pace!", urlo a squarciagola, meravigliandomi di me stesso.

é questo che stringiamo a noi stessi per tutta la vita, un mucchio di terra e carne. E ne vale la pena? Ne vale la pena? Questa domanda mi scorre nelle vene in un secondo. Ne vale la pena?
"Sì!", è la risposta. Sì, ne vale la pena. Penso che non potrei proprio rinuciare a questo. Posso forse abbandonare la vita, ma non il vissuto.

Le mie catene! Afferro le mie catene con più forza possibile. Inutile dire che il dolore è più forte che mai, ma io mi ci aggrappo.
Rassicurante, fermo, immobile passato.

Meglio essere in una fossa con la terra in bocca, meglio essere in un incubo con tutte le mie maschere imbalsamate nella carne del passato, meglio essere prigioniero e incatenato ai macigni dei ricordi, piuttosto che essere risucchiato da quella bocca ingorda e ruminante della vita, che nel suo osceno pasto sputa morte le creature che ha masticato senza pietà né ritegno.


Corvotempesta.