martedì 29 marzo 2011

Lo Zappaterra_part.2

Ecco il secondo capitolo del racconto Lo Zappaterra (Continua da pag.7 di Malingut).


Vomitato dalla terra in un luogo stranamente familiare mi guardo attorno. Una figura lontana mi fa segno di avvicinarmi.

È paffuto, la faccia come un grugno. Siede con aria distratta e i suoi occhi fissano un punto indefinito, profondo ed evanescente.
Il primo pensiero che salta in mente a chiunque lo veda per la prima volta è che assomigli a uno gnomo o, che so, a un troll. Gli unici capelli non inghiottiti dalla stempiatura sono unti e bisunti. Ha l'aria molto trasandata ed è vestito male. Ha le braghe di una tuta vecchia, una maglia tutta slabrata e un cappotto infilato storto. Sembra che mastichi in continuazione qualcosa, ma non ha nulla in bocca.
A guardare la sua espressione sembra che abbia la mente completamente vuota. È lì che rumina, brutto e trasandato.

Passano una decina di minuti, in silenzio, poi si gira goffamente e mi guarda con un'espressione incomunicabile. I suoi occhi sono sempre vuoti, sembrano quelli di una trota, ma a uno sguardo più attento sono profondi, sono due tunnel umidi e acquosi.
Il tempo è grigio. Fa sempre molto freddo. Stiamo attoniti, seduti su due muretti di cemento, uno di fronte all'altro. Il prato attorno a noi è spettinato dal vento, e dalla terra spuntano, come croci nei cimiteri, antenne metalliche su cui si posano non curanti uccellacci neri dal becco giallissimo e il verso gracchiante. Alla mia destra c'è un palazzo di recente costruzione, alle numerose finestre vanno e vengono sguardi fugaci di presenze invadenti. Mi sento osservato, spiato. Nel silenzio infinito di quei momenti gli sguardi inquisitori appesantiscono la mia coscienza. È tutto innaturale e già da un pezzo mi chiedo cosa stia per succedere e per quale motivo io debba stare lì, a sopportare questa situazione insostenibile.
Atmosfera pesante ed elettrica. Il vuoto mi passa tra i capelli e non sento alcun rumore. Nell'ovattata ansia che mi spinge a pensare al passato percepisco ora uno scopo preciso. Sento che l'uomo paffuto e grottesco, col suo grugno da Mussolini deformato, mi deve dare delle risposte.

“Non ti darò delle risposte”, attacca a parlare l'uomo, “ti dirò ciò che sai già, anzi. Ti dirò tutte quelle cavolate noiose che già ti rimbombano nella testa. Forse, sei qui solo per farti del male, per ascoltare ancora le tue inadeguatezze. Beh, io non ho problemi a rigirare il coltello nella piaga, non sono miei né il coltello né la piaga”. La sua voce è da burbero e i suoi occhi a palla non si fermano un attimo, rimbalzando continuamente da una cosa all'altra. Occhi vitrei e gelatinosi.
“Vivi nel passato. Sei un imbalsamatore di momenti. Già, perché, se nel presente scavi fosse, nel passato fai l'imbalsamatore. Tutto è eretto a monumento, lo vedi? Che siano statue di bronzo belle e lucidate, che siano ammuffiti bozzetti di legno puzzolente, che siano modelli marmorei decadenti, tutto è innalzato a essere qualcosa che non era. Non ricavi niente dal culto di queste cose, ma non riesci a non farlo, non riesci a fermarti”.
Accendo una sigaretta e, nel farlo, le mie mani tremano. Sono mani fredde e sudate.
"La vita è in un altro luogo - riprende l'uomo - e ti chiama con un illusorio canto da sirena. La vita non è un bene, non è una cosa splendida, è meschina invece, striscia ed è viscida, ma è il luogo in cui sei obbligato ad andare. Non perchè sia una cosa importante da vivere, ma semplicemente perchè le cose sono come sono. E tu, caro ragazzo, invece di eseguire il volere della vita, ti incateni a quei pesi enormi che chiamiamo ricordi. A quei macigni tu stai appeso. Ma il problema è che prima o poi la vita ti chiamerà più forte e le catene saranno troppo strette per esser sciolte. La vita è ingorda, ti mangerà, ti divorerà e ti consumerà con il suo suono onnipotente. Incastrato tra quel passato roccioso e la vita che risucchia non avrai nemmeno il tempo di pensare. Solo tramite la vita si muore e tu, incastrato come sei, rimarrai dilaniato tra queste forze senza avere pace".

Catene, catene a cui mi lego indissolubilmente. Identità e oppressione sono due cose indivisibili. Non può esistere passato senza tentacoli prensili. Non esistono ricordi che non siano macigni che legano le persone al proprio passato. é tutta colpa della visione lineare della storia, ma sono legato troppo anche a essa. Non l'abbandonerò, non tradirò il passato, anche se tormentoso.

L'uomo si gira dall'altra parte, guarda in direzione di un rumore lontano. Sbadiglia vistosamente e si gratta la pancia. Lui non è una persona comune. Lui sa di perdere la vita in futilità quotidiane, sa che è meglio fare così. Butta la sua vita in piccolezze e momenti morti, annoiato. Si capisce però che è cosciente del suo comportamento. Brama la propria dissoluzione, lui è davvero divorato dalla vita e non ha ancore nè catene con cui tenersi stretto al passato. Lui è il divenire, lui è la dissoluzione cosciente. Non trova felicità in nulla e neanche tormento. é perso. Perso nella vita che scorre.

"Vattene via", mi dice. Io meccanicamente mi alzo, lo guardo un ultima volta, ma non riesco a incrociare il suo sguardo fugace. Lui non c'è, in realtà. Lui è la vera vita, dilaniante attesa che nel suo svolgersi è tutt'uno con la morte.

to be continued...

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